Sentenza n. 45198/2016 del 07/04/2016 della Corte di Cassazione dove la Cassazione spiega che se il Datore di lavoro installa telecamere senza autorizzazione anche se le tiene spente è comunque reato

Gentili colleghi,

ritenendo di fare cosa gradita nei confronti degli associati e non, lo Staff ILA, segnala la Sentenza n. 45198/2016 del 07/04/2016 della Corte di Cassazione< dove la Cassazione spiega che se il Datore di lavoro installa telecamere senza autorizzazione anche se le tiene spente è comunque reato.

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Sentenza n. 45198/2016 del 07/04/2016 della Corte di Cassazione< è reato la predisposizione, da parte del datore di lavoro, di apparecchiature idonee, nella specie telecamere, a controllare a distanza l’attività dei lavoratori e per la sua punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature essendo sufficiente l’idoneità al controllo a distanza dei lavoratori e la sola installazione dell’impianto.

Penale Sent. Sez. 3 Num. 45198 Anno 2016 Presidente: ROSI ELISABETTA Relatore: LIBERATI GIOVANNI Data Udienza: 07/04/2016<

SENTENZA

sui ricorsi proposti da

Kkkk Kkkkkk, nata ad Ascoli Piceno il 10/8/1955

Xxxxxx Xxxxxx, nata a Tashkent (Uzbekistan) il 21/2/1948

avverso la sentenza del 23/12/2013 del Tribunale di Ascoli Piceno

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Liberati;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Aldo Policastro, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato e la trasmissione degli atti alla autorità amministrativa competente.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 23 dicembre 2013 il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato Kkkkkk Kkkk e Xxxxxx Xxxxxx alla pena euro 1.000,00 di ammenda per il reato di cui agli artt. 4, commi 2 e 3, e 38 I. 300/70 e 114 d.lgs. 196/2003 (per avere, quali amministratrici della S.r.l. Aurora, esercente il night club Mucambo, installato e posto in funzione nei locali di tale club impianti ed apparecchiature audiovisive dalle quali era possibile controllare a distanza l’attività dei lavoratori dipendenti, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e con la commissione interna e senza osservare le modalità indicate dalla locale Direzione Territoriale del lavoro).

2. Avverso tale sentenza hanno proposto congiunti ricorsi in appello entrambe le imputate, convertiti in ricorsi per cassazione, lamentando l’errata interpretazione delle deposizioni testimoniali da parte del Tribunale, avendo uno solo dei testi escussi riferito della presenza di una sola telecamera, di cui non era neppure stata accertata la funzionalità, ed avendo l’unica telecamera esistente funzione difensiva, essendo prossima alla cassa e volta quindi a prevenire ed accertare comportamenti illeciti dei dipendenti, e non anche a raccogliere notizie sulla attività lavorativa dei dipendenti stessi.

Hanno inoltre lamentato insufficienza di motivazione in ordine alla determinazione della pena ed alla mancata concessione della sospensione condizionale della stessa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili.

1. L’art. 4 I. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) vieta espressamente l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentano il controllo a distanza dei lavoratori, permettendone l’installazione, se richiesti da esigenze organizzative e produttive o di sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale, solamente previo accordo con le rappresentanze sindacali unitarie o con quelle aziendali, o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro.

La disposizione, tuttora vigente, pur non trovando più (cfr. Sez. 3, n. 40199 del 24/9/2009, Masotti, Rv. 244902) sanzione nell’art. 38, comma 1, della medesima I. 300 del 1970, a seguito della soppressione del riferimento all’art. 4 nel suddetto art. 38, comma 1, da parte dell’art. 179 d.lgs. 196 del 2003 (che colma la lacuna mediante il combinato disposto dei suoi artt. 114 e 171, che confermano quanto disposto dall’art. 4 e rinviano alle sanzioni contemplate dal suddetto art. 38, comma 1, I. 300 del 1970, con la conseguente esclusione della depenalizzazione della fattispecie ad opera dell’art. 1, comma 1, d.lgs. 8 del 2016, essendo prevista la pena alternativa dell’ammenda o dell’arresto e non la sola pena pecuniaria), prevede una condotta criminosa rappresentata dalla installazione di impianti audiovisivi idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori, qualora non vi sia stato consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati, cfr. Sez. 3, n. 22611 del 17/04/2012, Banti, Rv. 253060) o permesso dall’Ispettorato del lavoro.

Si tratta di un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori, con la conseguenza che per la sua integrazione è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l’attività dei lavoratori, in quanto per la punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature (Sez. 3, n. 4331 del 12/11/2013, Pezzoli, Rv. 258690), essendo sufficiente l’idoneità al controllo a distanza dei lavoratori (cfr. Sez. 3, n. 8042 del 15/12/2006, Fischnaller, Rv. 236077) e la sola installazione dell’impianto (Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012, Rv. 621115, Bonforti contro Unicredit Capogruppo Gruppo Bancario Unicredit Spa; Sez. L, Sentenza n. 2117 del 28/01/2011, Rv. 616046, Antonini ed altri contro Prosegur Servizi Sri).

Ne consegue la manifesta infondatezza della censura relativa al mancato accertamento della funzionalità delle telecamere di cui è stata accertata l’installazione all’interno del locale notturno gestito dalla società amministrata dalle ricorrenti (con la precisazione del loro collegamento ad un monitor posto in una stanza attigua a quella nella quale si svolgevano gli spettacoli), non essendo necessaria la messa in funzione od il concreto utilizzo delle apparecchiature di controllo a distanza, essendo sufficiente, al fine della configurazione del reato in esame, la loro predisposizione e la funzionalità ed idoneità al controllo a distanza dei lavoratori.

Le censure in ordine al numero di telecamere installate, di cui alcuni dei testi escussi non avrebbero indicato il numero e la posizione (indicati, peraltro, dalla teste D’Angelo, funzionario della Direzione territoriale del lavoro, che ha riferito di più telecamere installate nei vari angoli del locale e del loro collegamento al monitor posto in un locale attiguo a quello principale nel quale erano posizionale le telecamere), attengono all’accertamento dello stato dei luoghi compiuto dal giudice del merito, non sindacabile, in mancanza di vizi della motivazione, non specificamente indicati e comunque non sussistenti, nel giudizio di legittimità.

2. Le doglianze in ordine alla insufficienza della motivazione riguardo alla misura della pena ed al diniego della sospensione condizionale sono manifestamente infondate.

La determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte del giudice deve ritenersi compiutamente osservato, quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi, come nel caso in esame, di ritenerla adeguata o non eccessiva o congrua. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 cod. pen.

Il diniego del beneficio della sospensione condizionale è stato, anch’esso, adeguatamente motivato, con il rilievo della mancanza di elementi di qualsiasi genere idonei a far presumere la astensione dalla commissione di altri reati: tale motivazione risulta corretta (cfr. Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, Giordano, Rv. 248866; Sez. 6, Sentenza n. 50132 del 21/11/2013, Pilli, Rv. 258501) e non è sindacabile sul piano del merito.

3. I ricorsi devono, in conclusione, essere dichiarati inammissibili.

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa delle ricorrenti (Corte Cost. sentenza 7 – 13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.500,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 07/04/2016

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